- Questo evento è passato.
Dal 19 maggio e fino al 13 giugno apre al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano la mostra “La Memoria del dolore. Un progetto di rinascita”.
Attraverso lo sguardo di Marco Delogu, Raffaela Mariniello e Mohamed Keita, fotografi di fama internazionale, scopriremo uno dei luoghi più evocativi della storia d’Italia: il carcere di Santo Stefano-Ventotene.
Curata da Marco Delogu, la mostra è promossa dalla Commmissaria Straordinaria per il recupero del Carcere Santo Stefano-Ventotene, Silvia Costa, insieme al Ministero della Cultura e al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.
Costruito nel 1795 sull’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago delle Isole Ponziane, su iniziativa di Re Ferdinando IV di Borbone, il carcere ha accolto detenuti comuni e politici fino alla sua dismissione nel 1965; un grandioso progetto di recupero darà nuova vita a questo luogo trasformandolo in un centro polifunzionale culturale ed espositivo.
Oltre alle suggestive opere fotografiche, la mostra si avvarrà di alcune brevi testimonianze dei reclusi, di un video del regista Salvatore Braca e di un reading di Edoardo Albinati.
Le testimonianze dei reclusi
Rocco Pugliese
“Una notte un grido straziante mi svegliò. Dalle celle di punizione giungevano rumori di guardie che correvano e poi l’urlo di Suo zio: ‘Mamma, mamma’ e quindi un silenzio di morte… Da informazioni assunte da detenuti comuni che facevano i lavori degli scopini e cioè pulivano i corridoi, le celle e portavano da mangiare ai detenuti, seppi che Suo zio era stato ucciso dalle guardie… Io quando parlo di lotta antifascista ricordo anche Suo zio perché pur non avendolo conosciuto personalmente è stato mio compagno all’ergastolo di Santo Stefano ed è morto tragicamente… La esorto a tenere viva la memoria di Rocco Pugliese, ucciso all’ergastolo di Santo Stefano”.
Lettera di Sandro Pertini, già detenuto a Santo Stefano durante il fascismo e futuro presidente della Repubblica, alla zia di Rocco Pugliese, Lina. Rocco Pugliese, comunista di Palmi (Reggio Calabria) era stato condannato a 24 anni e 7 mesi di reclusione per l’omicidio di un fascista. Omicidio che non aveva mai commesso.
Athos Lisa
“L’interno dell’ergastolo mi apparve freddo, severo, come una pietra tombale… Il mio pensiero corse agli anfiteatri romani e alla loro storia, perché l’inferno, all’ergastolo, è fatto a guisa di anfiteatro. Le celle si snodavano lungo una circonferenza della quale non mi è stato possibile valutare la dimensione. Ve ne erano al piano terra e al primo piano. Un ballatoio completamente scoperto si snodava su tutta la circonferenza favorendo la sorveglianza diurna e notturna. Al centro, elevata da terra, dominava la chiesa, circondata da un terrazzo da cui si potevano sorvegliare i detenuti durante il passeggio. Sotto la chiesa i cortiletti per il cosiddetto passeggio. Il tutto formava una specie di complesso monumentale”.
Athos Lisa, comunista, condannato a nove anni e dieci mesi di reclusione dal Tribunale speciale istituito dal fascismo. (Athos Lisa, Memorie. Dall’ergastolo di Santo Stefano alla casa penale di Turi di Bari, Feltrinelli,1973).
Giuseppe Mariani
“Col primo colpo di mazza la serratura saltò, ed io mi trovai immerso in una moltitudine armata, chi di fucile e chi di attrezzi da lavoro. Mi dicevano che dovevo essere il capo perché Pollastro era ferito. Mentre mi limitavo a rispondere che prima volevo vedere e parlare con Pollastro scendevo le scale e mi dirigevo in direzione di costui. Lo trovai seduto su una sedia e con una gamba distesa sopra un’altra sedia… Le condizioni, da tutti indistintamente accettate e da qualcuno perfino suggerite, furono queste: le armi non dovevano essere distribuite a casaccio; sarebbe stato passibile della fucilazione chiunque avesse toccato i civili, chi avesse fatto atti di saccheggio e ancora quelli che fossero venuti a diverbio con altri con vie di fatto”.
Dalle memorie di Giuseppe Mariani, l’anarchico condannato all’ergastolo per la strage del Diana (Milano, 1921, 21 morti e 80 feriti). Pollastro era Sante Pollastro, il bandito che ha ispirato la canzone di Francesco De Gregori “Il bandito e il campione”. Insieme guidarono la rivolta dei detenuti dell’ergastolo di Santo Stefano scoppiata il 13 novembre 1943 e durata quattro giorni. (Giuseppe Mariani, Memorie di un ex terrorista, Ultima Spiaggia, 2009)
Eugenio Perucatti
“La pena dell’ergastolo deve essere attenuata perché ad una nazione cattolica e civile, alla pari degli stessi doveri di salvare l’infanzia, di istruire i fanciulli, di curare gli ammalati, di proteggere il lavoro, di garantire la sicurezza, incombe l’alto obbligo morale di indirizzare le proprie leggi e la propria particolare attività, alla redenzione umana e sociale, spirituale e materiale dei condannati. In particolare di quelli per i quali la dura obiettività della condanna alla pena senza fine, tenderebbe a distruggere le condizioni stesse della redenzione materiale, per il baratro in cui è stata ricacciata per sempre la speranza.
“La pena dell’ergastolo deve essere attenuata perché la giustizia umana è per definizione imperfetta o relativa; la mente umana naturalmente limitata, il cuore possibilmente impulsivo, e lo spirito e lo spirito frequentemente debole; e tutto ciò non può non generare un profondo senso di solidarietà umana che, mentre impone la difesa comune dal male, impone pure di consentire a chiunque di riscattare le proprie colpe.
“La pena dell’ergastolo deve essere attenuata perché la società civile, volgendo i propri progressi verso migliori conquiste, avrà sempre maggiori mezzi per rafforzare la prevenzione del male, senza fare unico ed incondizionato affidamento sulla forza del diritto penale”.
Tre dei dieci motivi per cui secondo Eugenio Perucatti, direttore dell’ergastolo di Santo Stefano dal 1952 al 1960, la pena dell’ergastolo deve essere attenuata. Il suo libro “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, pubblicato nel 1955, è stato ristampato da Editoriale Scientifica nel 2021.
Luigi Settembrini
“Ma dopo che questi sciagurati hanno commesso il delitto, voi che avete fatto per correggerli? Ogni pena che non ha per iscopo la correzione del colpevole ed una riparazione alla società da lui offesa, non è pena, ma cieca e spietata vendetta che offende Dio e l’umanità. Voi invece di correggere gli uomini o li distruggete con la mannaia, o li gettate nei carceri e nelle galere ad imputridire nei vizi ed a lordarsi di altri e maggiori delitti: e riparate al danno della società offesa, facendo pagare al colpevole le spese del giudizio ed una multa, cioè dispogliate gli innocenti figliuoli e li costringete voi stessi a commettere le stesse colpe che avete punite nel padre. Non dite che alcuni uomini non possono correggersi: ma voi gli avete prima educati? Avete fatto nulla per impedire i delitti? E dopo i diritti avete tentato alcun mezzo per correggerli?
“La pena dell’ergastolo non è né giusta, né utile, né cristiana. Sta scritto che Iddio vuole la penitenza non la distruzione del peccatore: o dunque il Vangelo è falso o questa pena e empia o chi la dà è stolto ed empio. Nei registri dell’ergastolo si trova scritto che in 20 anni sono morti uccisi mille uomini e che dal principio del 1848 sino a questo anno 1851 ne sono stati uccisi diciannove”.
Luigi Settembrini, scrittore e patriota, rinchiuso per otto anni nell’ergastolo di Santo Stefano (Luigi Settembrini, L’ergastolo di Santo Stefano, Ultima spiaggia, 2010).
Luigi Podda
“Appena arrivato a Santo Stefano, fui molto colpito dalla vista di un gran numero di detenuti vecchissimi, alcuni di 80 anni e oltre. Parecchi di loro avevano già scontato 30 o 35 anni di reclusione, di cui magari 10 o 12 in segregazione assoluta.
“Appena arrivava un nuovo detenuto, questi vegliardi gli si stringevano intorno ed era tutto un chiedere ansioso. Chi eri, da dove venivi, che cosa avevi fatto e soprattutto come era la vita fuori. Molti di loro erano analfabeti e si esprimevano ancora nel dialetto stretto dei loro luoghi di origine, tanto che mi riusciva difficile capirli.
“Parlando con loro, si sentiva che ormai vivevano fuori dal nostro mondo. Dopo decenni di reclusione, ormai rassegnati, si erano costruiti un mondo del tutto particolare, con una loro mentalità carceraria e valori assai diversi da quelli della società normale. In molti si notava poi come una alterazione psicologica irrimediabile, dovuta a quel modo anormale di vivere. Veniva fatto di pensare che sarebbe stata meno penosa la condanna a morte: meglio morire in una volta sola invece di venire distrutti giorno per giorno, senza speranza. Come risultato di quella vita degradante, in pochi anni il carcerato si spersonalizzava completamente, fino a diventare una larva, un oggetto, un numero. Con un sistema carcerario rimasto identico a quello fascista non poteva accadere diversamente”.
Luigi Podda, condannato all’ergastolo poi graziato. Di sé ha detto: “Non ho mai smesso di battermi per dimostrare la mia innocenza, ma la giustizia, quella del codice fascista Rocco, difficilmente ammette di aver sbagliato. Così ho dovuto aspettare 25 anni e poi sono uscito, non riconosciuto innocente, ma graziato”. (Luigi Podda, Dall’ergastolo, Ultima Spiaggia, 2014).
Gaetano Bresci
Gaetano Bresci, l’uomo che uccise il re Umberto I, venne condannato all’ergastolo e rinchiuso nel carcere di Santo Stefano. Venne trovato morto nella sua cella il 22 maggio 1901, impiccato all’inferriata: suicidio, fu la versione ufficiale. Ma le testimonianze raccolte negli anni successivi dicono che è stato ucciso.
“È stato percosso a morte, poi hanno appeso il suo cadavere all’inferriata della sua cella”. (Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, all’Assemblea Costituente il 19 novembre 1947).
“Fu detto che si era impiccato ma come avesse potuto impiccarsi con le catene ai piedi e una sorveglianza continua (molto peggiore di quella che avevamo noi) e senza far rumore (quando bastava un piccolo movimento perché le catene emettessero il loro suono caratteristico) è quello che nessuno di noi ha mai capito”. (Racconto del detenuto Croce in Giuseppe Mariani, Nel mondo degli ergastoli, Arti Grafiche F.lli Garino, Torino 1954).
“Un certo giorno le guardie gli fecero il Santantonio. Ecco di che cosa si tratta: sotto il pretesto di tentata ribellione, le guardie gettano sul disgraziato coperte e lenzuole e lo colpiscono con bastoni fino a farlo morire. Il Bresci fu così finito e sepolto nell’isolotto in un posto mai precisato. Il comandante del reclusorio fu promosso e le tre guardie premiate: due altri ergastolani provenienti da Santo Stefano da me interrogati mi dissero che erano andati a Santo Stefano qualche tempo dopo ed avevano sentito da altri ergastolani più vecchi la conferma di questo episodio”. (Il deputato socialista Ezio Riboldi in una lettera al settimanale anarchico Umanità Nova, nel 1964.
Giovanni Andrea Addessi
“Ossequi Signor Direttore. Mi scusi se me ne sono andato così, con un tonfo e tanto trambusto. Spero di non crearle problemi, ma io proprio non ce la facevo più. L’ho detto a tutti che sono innocente, che non ho ucciso nessuno. C’è anche chi può provarlo. Ma ho capito che non interessava a nessuno fare giustizia. Per questo sono saltato giù. Ossequi Signor Direttore. Giovanni Andrea”. (Pier Vittorio Buffa, Non volevo morire così, Nutrimenti 2017).
“18 giugno 1909. L’ergastolano Addessi Giovanni Andrea di Raffaele, di anni 44… improvvisamente scavalcato il parapetto si buttava dall’altezza di metri 9,90 sul selciato del sottostante cortile… Egli era uno dei migliori condannati qui degenti, rispettoso e disciplinato, calmo e tranquillo non aveva mai dato a sospettare in lui propositi suicidi. Si protestava con insistenza innocente e forse la perduta speranza di ottenere una revisione di processo lo indusse al disperato passo”. (Rapporto del direttore dell’ergastolo di Santo Stefano, Nitolo, al pretore di Ventotene).
Giovanni Andrea Addessi, di Fondi, morto suicida nell’ergastolo di Santo Stefano, era stato ingiustamente condannato per un duplice omicidio. Le testimonianze che lo discolpavano non erano state mai prese in considerazione.
Pier Vittorio Buffa