Storie dell’archivio fotografico

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“Ogni qualvolta, dal 1867 in poi, ho visto scavare il suolo della campagna, sempre e dappertutto, anche nelle più ignote e più lontane tenute, ho visto tornare in luce tracce del lavoro dell’uomo, strade, ponti, cunicoli, case rustiche, ville signorili, pavimenti di mosaico… e così via discorrendo”. Erano più o meno questi i pensieri di Lanciani mentre, il 28 novembre 1881, tornava sull’Appia: l’affittuario di un terreno, infatti, aveva deciso di recintare la tenuta servendosi di varie macerie ma, invece di procurarsi il materiale dalle vicine cave di selce e peperino, aveva pensato bene di demolire i resti di antichi fabbricati ai lati della ferrovia di Marino, scoperti qualche mese prima. Impossibile sapere quanti danni fossero già stati fatti ma le condizioni si rivelarono subito ideali per condurre uno scavo dell’area “a regola d’arte”. Si poté così esplorare una delle numerose ville suburbane della zona, quella di Q. Voconio Pollione, ricchissima di arredi. Adagiata in una delle aree di rappresentanza della villa fu trovata la statua di Eracle oggi al Chiostro di Michelangelo; per molti anni la scultura fu esposta come appare nell’immagine storica che vi mostriamo, sull’altare funerario della giovane Minucia Suavis benché i due reperti non avessero, in realtà, nulla in comune. 
 #museonazionaleromano #termedidiocleziano #StorieinArchivioMNR #museitaliani #DiVa
@Ministero della Cultura   museitaliani

“Ogni qualvolta, dal 1867 in poi, ho visto scavare il suolo della campagna, sempre e dappertutto, anche nelle più ignote e più lontane tenute, ho visto tornare in luce tracce del lavoro dell’uomo, strade, ponti, cunicoli, case rustiche, ville signorili, pavimenti di mosaico… e così via discorrendo”. Erano più o meno questi i pensieri di Lanciani mentre, il 28 novembre 1881, tornava sull’Appia: l’affittuario di un terreno, infatti, aveva deciso di recintare la tenuta servendosi di varie macerie ma, invece di procurarsi il materiale dalle vicine cave di selce e peperino, aveva pensato bene di demolire i resti di antichi fabbricati ai lati della ferrovia di Marino, scoperti qualche mese prima. Impossibile sapere quanti danni fossero già stati fatti ma le condizioni si rivelarono subito ideali per condurre uno scavo dell’area “a regola d’arte”. Si poté così esplorare una delle numerose ville suburbane della zona, quella di Q. Voconio Pollione, ricchissima di arredi. Adagiata in una delle aree di rappresentanza della villa fu trovata la statua di Eracle oggi al Chiostro di Michelangelo; per molti anni la scultura fu esposta come appare nell’immagine storica che vi mostriamo, sull’altare funerario della giovane Minucia Suavis benché i due reperti non avessero, in realtà, nulla in comune.
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Certo , in Italia è fiorita la Civiltà più grande, longeva , basilare del Pianeta !!!!! R O M A. !!!!!!

Nel 1916, presso la tenuta del Quadraro, si scavava il solco per piantare la siepe lungo la nuova linea ferroviaria “Roma-Napoli”, la cosiddetta la “Direttissima Roma-Napoli”: l’ambizioso progetto di creare un collegamento più efficace, “direttissimo”, tra Roma e Napoli aveva preso forma intorno agli anni Settanta dell’Ottocento ma i lavori erano iniziati solo nel 1909 ed erano notevolmente rallentati a causa della guerra e delle caratteristiche del territorio da attraversare. La tratta allora in uso, però, che includeva il passaggio da Cassino, era frequentemente interrotta a causa di alluvioni o frane e l’individuazione di un percorso alternativo, attraverso Formia, prometteva un notevole risparmio di tempo per i treni. Poco prima del passaggio sotto gli archi dell’acquedotto Felice, a circa 20 metri di profondità, mentre spicconavano con forza, gli operai notarono qualcosa: una statua. Si interruppero subito e, faticosamente, estrassero dalla terra una figura femminile, acefala che, nonostante i numerosi colpi di piccone subiti, mostrava ancora, stretto nella mano sinistra, un papavero. Una matrona romana, spiegò l’archeologo Fornari agli operai, ritratta come la dea Cerere, dea della terra a cui era sacro il papavero, e collocata di certo in una delle tante tombe della via Latina ad accompagnare il sonno eterno di una persona amata.
 #museonazionaleromano #StorieinArchivioMNR #museitaliani #DiVa Ministero della Cultura @mic_italia

Nel 1916, presso la tenuta del Quadraro, si scavava il solco per piantare la siepe lungo la nuova linea ferroviaria “Roma-Napoli”, la cosiddetta la “Direttissima Roma-Napoli”: l’ambizioso progetto di creare un collegamento più efficace, “direttissimo”, tra Roma e Napoli aveva preso forma intorno agli anni Settanta dell’Ottocento ma i lavori erano iniziati solo nel 1909 ed erano notevolmente rallentati a causa della guerra e delle caratteristiche del territorio da attraversare. La tratta allora in uso, però, che includeva il passaggio da Cassino, era frequentemente interrotta a causa di alluvioni o frane e l’individuazione di un percorso alternativo, attraverso Formia, prometteva un notevole risparmio di tempo per i treni. Poco prima del passaggio sotto gli archi dell’acquedotto Felice, a circa 20 metri di profondità, mentre spicconavano con forza, gli operai notarono qualcosa: una statua. Si interruppero subito e, faticosamente, estrassero dalla terra una figura femminile, acefala che, nonostante i numerosi colpi di piccone subiti, mostrava ancora, stretto nella mano sinistra, un papavero. Una matrona romana, spiegò l’archeologo Fornari agli operai, ritratta come la dea Cerere, dea della terra a cui era sacro il papavero, e collocata di certo in una delle tante tombe della via Latina ad accompagnare il sonno eterno di una persona amata.
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Nel 1935 vennero eseguiti alcuni sterri nell’area del Forte Prenestino, uno delle quindici strutture del “Campo Trincerato” di Roma, un sistema difensivo relizzato tra il 1877 e il 1891 a difesa di Roma e dell’area immediatamente circostante. Dagli scavi emerse la presenza di un mosaico romano piuttosto esteso in almeno due diversi ambienti. Il pessimo stato di conservazione permise però di salvare solo una piccola parte di esso, un “emblema”, un riquadro figurato con ritratto di Menade, che era inserito in un’ampia pavimentazione decorata a meandri alternati a riquadri con motivi geometrici e vegetali. Strappato dal contesto, dove non sarebbe stato possibile salvarlo, il mosaico fu trasportato al Museo Nazionale Romano e si trova oggi esposto al secondo piano di Palazzo Massimo. 
#museonazionaleromano #StorieinArchivioMNR #PalazzoMassimo #museitaliani #DiVa Ministero della Cultura

Nel 1935 vennero eseguiti alcuni sterri nell’area del Forte Prenestino, uno delle quindici strutture del “Campo Trincerato” di Roma, un sistema difensivo relizzato tra il 1877 e il 1891 a difesa di Roma e dell’area immediatamente circostante. Dagli scavi emerse la presenza di un mosaico romano piuttosto esteso in almeno due diversi ambienti. Il pessimo stato di conservazione permise però di salvare solo una piccola parte di esso, un “emblema”, un riquadro figurato con ritratto di Menade, che era inserito in un’ampia pavimentazione decorata a meandri alternati a riquadri con motivi geometrici e vegetali. Strappato dal contesto, dove non sarebbe stato possibile salvarlo, il mosaico fu trasportato al Museo Nazionale Romano e si trova oggi esposto al secondo piano di Palazzo Massimo.
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Nel marzo 1921, Enrico Pieroni si apprestava a iniziare alcuni lavori in un terreno datogli in concessione dalla Cooperativa “Borgate agricole”, istituita nel 1918 per edificare centri che potessero agevolare la piccola proprietà rurale. A poca profondità dal piano di campagna, emersero diversi muri che delimitavano dei vani e delle vasche. In fondo a una delle vasche, coricata su un piano di cocciopesto, si trovava una scultura di medie dimensioni. Fu solo quando fu finalmente sollevata, che si poté identificarne il soggetto: un gruppo statuario costituito da un giovane nudo, con un cagnolino accucciato ai suoi piedi, e una grande aquila posata su un supporto roccioso: si trattava evidentemente di una raffigurazione del mito di Ganimede, rapito dall’aquila di Giove. Quando l’archeologo Goffredo Bendinelli giunse finalmente sul posto, non riuscì a nascondere la sua delusione e si sentì, anzi, prendere da un senso di irritazione: la scultura non era solo incompleta ma eseguita in modo alquanto sommario ed evidentemente opera di uno scultore mediocre che, “pur copiando modelli notissimi… non ha saputo dare al corpo giovanile, espresso in tutta la sua nudità, taluni dei più elementari rilievi anatomici, né ha saputo dissipare quella impressione di rigidezza e di legnosità che fa ai nostri occhi la scultura nel suo complesso, quasi non si trattasse che di un abbozzo.” Eppure era evidente che, benché non accurata, quella scultura era stata considerata abbastanza preziosa per decorare quegli ambienti dimenticati da secoli dove, di lì a poco, sarebbe nata la Borgata di Centocelle. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano

Nel marzo 1921, Enrico Pieroni si apprestava a iniziare alcuni lavori in un terreno datogli in concessione dalla Cooperativa “Borgate agricole”, istituita nel 1918 per edificare centri che potessero agevolare la piccola proprietà rurale. A poca profondità dal piano di campagna, emersero diversi muri che delimitavano dei vani e delle vasche. In fondo a una delle vasche, coricata su un piano di cocciopesto, si trovava una scultura di medie dimensioni. Fu solo quando fu finalmente sollevata, che si poté identificarne il soggetto: un gruppo statuario costituito da un giovane nudo, con un cagnolino accucciato ai suoi piedi, e una grande aquila posata su un supporto roccioso: si trattava evidentemente di una raffigurazione del mito di Ganimede, rapito dall’aquila di Giove. Quando l’archeologo Goffredo Bendinelli giunse finalmente sul posto, non riuscì a nascondere la sua delusione e si sentì, anzi, prendere da un senso di irritazione: la scultura non era solo incompleta ma eseguita in modo alquanto sommario ed evidentemente opera di uno scultore mediocre che, “pur copiando modelli notissimi… non ha saputo dare al corpo giovanile, espresso in tutta la sua nudità, taluni dei più elementari rilievi anatomici, né ha saputo dissipare quella impressione di rigidezza e di legnosità che fa ai nostri occhi la scultura nel suo complesso, quasi non si trattasse che di un abbozzo.” Eppure era evidente che, benché non accurata, quella scultura era stata considerata abbastanza preziosa per decorare quegli ambienti dimenticati da secoli dove, di lì a poco, sarebbe nata la Borgata di Centocelle. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano ... Leggi tuttoComprimi

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Dove si trova ora la statua?

Le sculture così era posizionate in un modo particolare forse in alto una nicchia

Nel 1925 la Cooperativa “Torre di Belisario” iniziò i lavori per l’edificazione di un fabbricato destinato ai suoi soci, in via Sicilia 180. Lo sterro, profondo e ampio, rivelò presto la presenza di costruzioni di età romana: a intervenire sul posto fu Gioacchino Mancini, ispettore dell’Ufficio Scavi di Roma. Da un primo esame fu subito chiaro che le murature appartenessero a una ricca abitazione privata di età imperiale. Approfondendo lo scavo, si riconobbe addirittura la presenza di un piccolo edificio termale, dotato di “praefurnium”, l’ambiente destinato al riscaldamento dell’acqua; uno dei vani che lo componevano si inoltrava a circa 2 metri di profondità sotto la via Sicilia ed era suddiviso da un muretto che divideva due aree separate. Fu nella parte posteriore di questo vano che emerse un pavimento a mosaico, realizzato con grandi tessere bianche e nere, raffigurante il noto tipo dell’Afrodite Anadiomene (la dea appena uscita dal bagno che si sistema i capelli bagnati), circondata da creature marine. Mancini lo guardò divertito: benché di fattura alquanto grossolana, l’insieme appariva veramente grazioso, soprattutto quell’amorino, raffigurato nell’atto di “sforzare la sua piccola statura” per porgere uno specchio a Venere, nuda e intenta alla sua toeletta dopo il bagno. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano

Nel 1925 la Cooperativa “Torre di Belisario” iniziò i lavori per l’edificazione di un fabbricato destinato ai suoi soci, in via Sicilia 180. Lo sterro, profondo e ampio, rivelò presto la presenza di costruzioni di età romana: a intervenire sul posto fu Gioacchino Mancini, ispettore dell’Ufficio Scavi di Roma. Da un primo esame fu subito chiaro che le murature appartenessero a una ricca abitazione privata di età imperiale. Approfondendo lo scavo, si riconobbe addirittura la presenza di un piccolo edificio termale, dotato di “praefurnium”, l’ambiente destinato al riscaldamento dell’acqua; uno dei vani che lo componevano si inoltrava a circa 2 metri di profondità sotto la via Sicilia ed era suddiviso da un muretto che divideva due aree separate. Fu nella parte posteriore di questo vano che emerse un pavimento a mosaico, realizzato con grandi tessere bianche e nere, raffigurante il noto tipo dell’Afrodite Anadiomene (la dea appena uscita dal bagno che si sistema i capelli bagnati), circondata da creature marine. Mancini lo guardò divertito: benché di fattura alquanto grossolana, l’insieme appariva veramente grazioso, soprattutto quell’amorino, raffigurato nell’atto di “sforzare la sua piccola statura” per porgere uno specchio a Venere, nuda e intenta alla sua toeletta dopo il bagno. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano ... Leggi tuttoComprimi

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Che bello! E dove sta, nei depositi?

Nel corso del 1912, la Commissione reale per la zona monumentale eseguì un ampio scavo nelle Terme di Caracalla, “eseguito con grandi mezzi, diretto da un apposito personale tecnico, seguito in tutte le sue fasi dalla Direzione degli Scavi di Roma e del Lazio”, come scrisse Ghislanzoni. Lo scavo riguardò anche i sotterranei, con la fitta “rete di gallerie e di cryptae veramente degna di essere studiata ed in gran parte conosciuta”, e, soprattutto, il Mitreo. Fu proprio qui che, inaspettatamente, tornò alla luce una scultura di Venere del tipo “anadiomene”, ritratta cioè mentre esce dall’acqua strizzandosi con le mani le lunghe chiome che ricadono sulle spalle. Ghislanzoni la osservò pensoso: conosceva numerose varianti di quel tipo, il cui originale era attribuito ad Apelle, ma nessuna era così raffinata. Probabilmente, davanti ai suoi occhi, si trovava ora la copia più fedele alla creazione originaria. Rimase a lungo a osservare minuziosamente i singoli dettagli, poi sospirò deluso. “Gran peccato che manchi della testa”, si disse, concludendo la sua relazione proprio con questa malinconica considerazione. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano

Nel corso del 1912, la Commissione reale per la zona monumentale eseguì un ampio scavo nelle Terme di Caracalla, “eseguito con grandi mezzi, diretto da un apposito personale tecnico, seguito in tutte le sue fasi dalla Direzione degli Scavi di Roma e del Lazio”, come scrisse Ghislanzoni. Lo scavo riguardò anche i sotterranei, con la fitta “rete di gallerie e di cryptae veramente degna di essere studiata ed in gran parte conosciuta”, e, soprattutto, il Mitreo. Fu proprio qui che, inaspettatamente, tornò alla luce una scultura di Venere del tipo “anadiomene”, ritratta cioè mentre esce dall’acqua strizzandosi con le mani le lunghe chiome che ricadono sulle spalle. Ghislanzoni la osservò pensoso: conosceva numerose varianti di quel tipo, il cui originale era attribuito ad Apelle, ma nessuna era così raffinata. Probabilmente, davanti ai suoi occhi, si trovava ora la copia più fedele alla creazione originaria. Rimase a lungo a osservare minuziosamente i singoli dettagli, poi sospirò deluso. “Gran peccato che manchi della testa”, si disse, concludendo la sua relazione proprio con questa malinconica considerazione. #StorieinArchivioMNR #museonazionaleromano ... Leggi tuttoComprimi

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Ancient Hellenic art

Edoardo Parsi continuava a sbadigliare. Troppo sole, in quel 10 luglio del 1916: dal giorno prima Roma era improvvisamente diventata una tremenda fornace e, con la sua consueta fortuna, era toccato proprio a lui di dover seguire quelle demolizioni sotto un sole rovente. I lavori si trascinavano a rilento da parecchio ormai, del resto cera la Guerra, ma la costruzione del Ministero di Grazia e Giustizia era iniziata ben prima, nel 1913; cerano ancora chiese e case da sacrificare per i ministeri di quella nuova Roma che andava sorgendo di qua e di là. Parsi detestava i cambiamenti: via Arenula gli piaceva così comera e lidea di questo casermone non gli andava proprio giù. Una voce lo strappò ai suoi pensieri. Nel muro da demolire cera qualcosa che doveva guardare. Parsi prese immediatamente il Giornale di Scavo e registrò, poi diede unocchiata. Fu forse il gran caldo ma, per un attimo, ebbe paura di restare pietrificato, nellincontrare lo sguardo corrucciato di una grandiosa Medusa in marmo, un tempo posta a decorare un ricco edificio e poi riutilizzata in un umile muro prossimo a essere demolito. 
 #museonazionaleromano #StorieinArchivioMNR

Edoardo Parsi continuava a sbadigliare. Troppo sole, in quel 10 luglio del 1916: dal giorno prima Roma era improvvisamente diventata una tremenda fornace e, con la sua consueta fortuna, era toccato proprio a lui di dover seguire quelle demolizioni sotto un sole rovente. I lavori si trascinavano a rilento da parecchio ormai, del resto c'era la Guerra, ma la costruzione del Ministero di Grazia e Giustizia era iniziata ben prima, nel 1913; c'erano ancora chiese e case da sacrificare per i ministeri di quella nuova Roma che andava sorgendo di qua e di là. Parsi detestava i cambiamenti: via Arenula gli piaceva così com'era e l'idea di questo casermone non gli andava proprio giù. Una voce lo strappò ai suoi pensieri. Nel muro da demolire c'era qualcosa che doveva guardare. Parsi prese immediatamente il Giornale di Scavo e registrò, poi diede un'occhiata. Fu forse il gran caldo ma, per un attimo, ebbe paura di restare pietrificato, nell'incontrare lo sguardo corrucciato di una grandiosa Medusa in marmo, un tempo posta a decorare un ricco edificio e poi riutilizzata in un umile muro prossimo a essere demolito.
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E questa testa dove sta ora?

Pezzi che ritrovati vanno preservati

Bellissimo questo vostro "instant book" sulla cronaca dei rinvenimenti archeologici degli oggetti durante le demolizioni a Roma. Rende giustizia alla conservazione dei "pezzi da Museo" ma soprattutto al contesto dove sono stati rinvenuti.

Paribeni era pensieroso. I lavori di preparazione alla semina di quel 1925 erano iniziati da parecchio e, nonostante egli stesso si fosse recato nel suburbio di Roma a ogni notizia di qualche scoperta, non poteva certo né essere stato dappertutto né aver visto tutto: quanti edifici, opere strade andavano perdute o distrutte ogni anno?  I moderni mezzi di coltivazione, le motoaratrici e gli esplosivi, erano indispensabili, necessari; eppure, in quella “battaglia per il grano”, Paribeni non riusciva a non sentirsi “spettatore muto e commosso, ma non mai riluttante e avverso”. “Anche lo studioso di antichità, seppellito nel profondo del cuore qualche rimpianto sentimentale, deve di buon grado aderire a quanto il dovere civico impone”. Ma quanti “agricoltori benemeriti” erano così ossequienti alle leggi da avvertire immediatamente eventuali scoperte, così da prevenire i danneggiamenti più gravi, raccogliere almeno testimonianze grafiche di quanto l’aratro avrebbe comunque inesorabilmente distrutto? Erano questi i suoi pensieri quando vennero ad avvisarlo: nella tenuta Fiorano, sulla destra della via Appia, incontro alla caserma dei dirigibilisti, le motoaratrici avevano portato in luce qualcosa e il proprietario, il Commendator Maruffi, aveva lodevolmente denunciato la scoperta. Tra quelle, una statua, probabilmente di uso funerario, raccontava con commuovente chiarezza le caratteristiche di una giovane donna: una “nobile matrona romana, saggia e affettuosa, devota e intemerata e pudicamente altera in tutto l’aspetto dolce e dignitoso delle sue salde virtù familiari”. Nell’osservarla, Paribeni fu preso da un sentimento di gratitudine e di dolce malinconia: persino l’aratro aveva sentito la necessità di rispettare quella nobile figura.
 #museonazionaleromano #StorieinArchivioMNR

Paribeni era pensieroso. I lavori di preparazione alla semina di quel 1925 erano iniziati da parecchio e, nonostante egli stesso si fosse recato nel suburbio di Roma a ogni notizia di qualche scoperta, non poteva certo né essere stato dappertutto né aver visto tutto: quanti edifici, opere strade andavano perdute o distrutte ogni anno? I moderni mezzi di coltivazione, le motoaratrici e gli esplosivi, erano indispensabili, necessari; eppure, in quella “battaglia per il grano”, Paribeni non riusciva a non sentirsi “spettatore muto e commosso, ma non mai riluttante e avverso”. “Anche lo studioso di antichità, seppellito nel profondo del cuore qualche rimpianto sentimentale, deve di buon grado aderire a quanto il dovere civico impone”. Ma quanti “agricoltori benemeriti” erano così ossequienti alle leggi da avvertire immediatamente eventuali scoperte, così da prevenire i danneggiamenti più gravi, raccogliere almeno testimonianze grafiche di quanto l’aratro avrebbe comunque inesorabilmente distrutto? Erano questi i suoi pensieri quando vennero ad avvisarlo: nella tenuta Fiorano, sulla destra della via Appia, incontro alla caserma dei dirigibilisti, le motoaratrici avevano portato in luce qualcosa e il proprietario, il Commendator Maruffi, aveva lodevolmente denunciato la scoperta. Tra quelle, una statua, probabilmente di uso funerario, raccontava con commuovente chiarezza le caratteristiche di una giovane donna: una “nobile matrona romana, saggia e affettuosa, devota e intemerata e pudicamente altera in tutto l’aspetto dolce e dignitoso delle sue salde virtù familiari”. Nell’osservarla, Paribeni fu preso da un sentimento di gratitudine e di dolce malinconia: persino l’aratro aveva sentito la necessità di rispettare quella nobile figura.
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La Tenuta "Il Palombaro" della Famiglia Maruffi (io ho avuto l'onore e il piacere di conoscere i discendenti) era stata interessata da scavi e ricerche fin dal 1844, con regolare concessione da parte della Reverenda Camera Apostolica che all'epoca, secondo l'Editto del Cardinal Pacca del 1820, gestiva questo aspetto amministrativo. Il proprietario, allora, era Francesco Maruffi.

Le motoaratrici erano al lavoro. Vincenzo Leoni le osservava con una certa apprensione; certo, si tenevano a debita distanza dai terreni di grande notorietà archeologica, quelli cioè dove si ergeva la Villa dei Quintili ma il quartiere era pur sempre detto Statuario per ovvi motivi. Da secoli, almeno dal Quattrocento, infatti, quella zona era chiamata così non solo per i resti architettonici di quelle poderose strutture, ma anche per la grande quantità di sculture e opere marmoree che affioravano dal suolo.  Eppure proprio quellaratro, verso cui Leoni nutriva tanta diffidenza si rivelò particolarmente utile e delicato: di lì a poco furono ben due le sculture che tornarono alla luce: una femminile, sul tipo dellArtemide Colonna, e laltra  raffigurante Apollo Citaredo.  Entrambe le statue, prive della testa, erano copie romane ispirate a originali diversi per stile ed epoca ma, quasi certamente, dovevano essere state collocate una accanto allaltra, ravvicinate e quasi giustapposte si disse Paribeni giunto sul posto; quelle stesse diversità di stile e di età non erano in fondo tanto vive e profonde da vincere larmonia che la somiglianza dellatteggiamento produce.  Paribeni guardò Leoni con riconoscenza: grazie alla sua accurata assistenza e al suo zelo, il Museo Nazionale Romano si sarebbe arricchito di due nuovi straordinari capolavori.
 #museonazionaleromano #StorieinArchivioMNR

Le motoaratrici erano al lavoro. Vincenzo Leoni le osservava con una certa apprensione; certo, si tenevano a debita distanza dai terreni di "grande notorietà archeologica", quelli cioè dove si ergeva la Villa dei Quintili ma il quartiere era pur sempre detto "Statuario" per ovvi motivi. Da secoli, almeno dal Quattrocento, infatti, quella zona era chiamata così non solo per i resti architettonici di quelle poderose strutture, ma anche per la grande quantità di sculture e opere marmoree che affioravano dal suolo. Eppure proprio quell'aratro, verso cui Leoni nutriva tanta diffidenza si rivelò particolarmente utile e delicato: di lì a poco furono ben due le sculture che tornarono alla luce: una femminile, sul tipo dell'Artemide Colonna, e l'altra raffigurante Apollo Citaredo. Entrambe le statue, prive della testa, erano copie romane ispirate a originali diversi per stile ed epoca ma, quasi certamente, dovevano essere state collocate una accanto all'altra, "ravvicinate e quasi giustapposte" si disse Paribeni giunto sul posto; quelle stesse "diversità di stile e di età" non erano in fondo "tanto vive e profonde da vincere l'armonia che la somiglianza dell'atteggiamento produce". Paribeni guardò Leoni con riconoscenza: grazie alla sua accurata assistenza e al suo zelo, il Museo Nazionale Romano si sarebbe arricchito di due nuovi straordinari capolavori.
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